Michele Farinelli, in arte FariNelly, nato a Ferrara 48 anni fa, ha
esordito su Pensieroplurale.it nel 2013, dando vita, nel 2014, a Onlife
Meditation, una rubrica di spiritualità e consapevolezza – attingendo
alla sua formazione come operatore Shiatsu e alla sua lunga esperienza
nel Tuina e nel Qi Gong – che ha avuto un grosso seguito di pubblico,
prima di diventare blog a sé e permettere al Nostro di cimentarsi con
successo nel campo della scrittura.
Il suo primo libro,
Riflettersi (2014), abbina poesia, saggistica e narrativa; ed era già un
segno di prodigiosa «trasmutazione alchemica del pensiero» (p. 12) in
parola scritta.
Recensioni Sentire e MeditareQui e ora ci
occupiamo invece di una seconda trasmutazione, dal titolo Sentire e
Meditare Onlife, suggestiva pubblicazione con appena un mese di vita,
eppure già in vetta alle classifiche dei libri più desiderati.
Si
tratta di un lavoro “fatto in casa”: una silloge di folgorazioni
poetiche, immagini dai tratti caratteristici dell’arte Zen e brevi
riflessioni filosofiche, frutto del progetto Onlife Meditatio Eszenziale
– degna prosecuzione dell’originaria già citata rubrica, ora anche
luogo di incontri di meditazione buddhista – un prodotto artigianale sui
generis, curato in ogni minimo dettaglio, perché il bello è nel
piccolo, perché bello è far da sé. Un self-publishing di tutto rispetto,
che, a differenza di molti libri-spazzatura, aggiunge
straordinariamente ed eccezionalmente valore al testo: condensa un
lavoro di manualità e intelligenza. Insomma, una rarità, una perla per
chi avrà avuto la fortuna di averlo. Io sono tra i pochi eletti ad
averlo avuto, dotato persino di dedica da parte del gentilissimo autore,
e amico. Per il quale nutro una profonda e sincera stima.
E se
in Riflettersi, con genuina lealtà, evidenziai (nella recensione, sia
pure un tantino aspra, che ne feci a suo tempo) qualche sconsiderata
traccia monistica, nel presente testo, con mio pieno compiacimento,
scorgo gradevolissime illuminazioni plurali.
Spazio infinito,
non vi è centro
come fuori,
così dentro (p. 41).
Lacerando
i troppi strati
d’illusione
vado vivendo
la realtà
di un istante
e l’Esistere
m’è possibile
in singolare pluralità (p. 22).
Inutile sottolineare che io avrei chiosato “plurale pluralità” oppure
“ineffabile pluralità”. Ma d’altronde, l’ossimoro (lacerante esso
stesso) già rivela, con portentosa energia, l’ineffabile pluralità
dell’Esistere.
Dove sono io,
dov’è l’Io?
Forse nella testa?
Nel cuore?
Nella pancia? (p. 25).
Si parte dal dubbio, dalla Domanda fondamentale, senza la quale neppure
vi sarebbero pensiero e poesia. Si approda nel mare magnum del Sé
consapevole-di-sé: il respiro lo annuncia, l’aria che entra ed esce ne
testimonia la presenza. E la mano è in grado di scrivere, non di getto,
ma per effetto di un’ispirazione miracolosa. Zampillano versi diretti e
mai accondiscendenti, né sciatti né permissivi, espressioni incantevoli e
rabbiose, come se a comporle fosse il respiro stesso, che dall’affanno
trapassa in quiete, al ritmo del cuore e del flusso vitale. È un
traguardo, per il poeta, che può trarre così un sospiro di «grande
sollievo» (p. 27), nella certezza, acquisita a fatica, di non essere da
solo.
Là dove
ogni divenire tace
la parola indietreggia
nella semplicità
riassorbita
come goccia
torna al suo
tutto (p. 50).
L’esortazione a vivere una vita semplice, per come si “presenta nel
presente”, senza filtri, senza lasciarsi condizionare da nulla, è da
approvare senza remore. «Vivere le nostre giornate centrati e
focalizzati nell’onlife, e quindi in equilibrio tra spirito e materia,
significa porsi in ascolto e saper cogliere le infinite sfumature di
tutto ciò che ci accade» (p. 58). Vivere onlife implica un percorso di
consapevolezza, che inizia ogni mattina «calzando le pantofole» (p. 60).
Implica movimento; essenzialmente, dello Spirito. Il tragitto da
compiere è lungo e tortuoso, agognato pellegrinaggio nelle sacre e
impervie terre dell’io. Non serve alcun kit del viandante, tutto ciò che
serve è già in noi, in paziente attesa: è «la necessità di scoprirci»
(p. 62). Necessità e opportunità al contempo. Va colta a volo. Solo chi
comincia un viaggio cambia se stesso. E se anche sembri tutto immobile,
dentro e fuori, di essere sempre al palo, di non avanzare di un pollice,
la realtà è ben altra: tutto sta cambiando, ciò in cui crediamo muta,
la nostra vita si trasforma. Tutto di noi diviene, inesorabilmente e
silenziosamente, nel non-luogo dello Spirito.
Il Silenzio è la lingua dello Spirito
[…]
Il Silenzio genera il vagito
[…]
Il Silenzio è cura di sé (p. 30).
Il Silenzio
accoglie tutto
nel suo
non-giudizio (p. 36).
Più nulla da dire,
più nulla da fare,
eterna lotta
tra sentire e pensare (p. 40).
Il silenzio non si può fare. Il silenzio c’è appena non si fa niente (p. 65).
Ricorda, quello della “meditazione silenziosa”, caldeggiata e praticata
dal Nostro, il “mushin” (espressione derivante dalle pratiche Zen e
dalle arti marziali giapponesi, letteralmente traducibile come
“non-mente”, indispensabile, tra le altre cose, per il buon esito di un
combattimento). L’io si eleva a «un piano differente» (p. 17), sino a
prendere dimora nella coscienza globale – leggi: nel cosmo plurale – ove
mente, corpo e mondo si manifestano spontaneamente, riscoprono «il
senso della vicinanza» (p. 8) e assaporano «ciò che è alla [loro]
portata» (p. 9). Si assiste così all’apertura del pensiero – uno
«sgabbiare il tappo» (p. 11) – all’infinita interiorità, conditio sine
qua non della più idonea risposta alle continue sfide della realtà
quotidiana. Il risultato è anche una trasfigurazione della realtà
medesima, che appare adesso in tutta la sua forza evocativa: «pura
accoglienza senza giudizio, come nuvole che passano nel cielo» (p. 11).
Il vaso si è aperto
tutto è in circolo,
nulla ritorna
nulla è perso (p. 18).
E ancora, con una venatura malinconica:
Risalendo la
china
d’un tempo beffardo,
vado svelando
l’illusione
delle cose (p. 21).
Eppure, nell’illusione del vivere, siamo chiamati alla più concreta
“religione del prossimo”, al rispetto per le idee altrui, al rispetto
per l’altro, chiunque esso sia, anzi, indipendentemente da chi esso sia.
Al rispetto per ogni credo e ogni divinità, nella coesistenza pacifica e
solidale di tutte le religioni. Si va così al di là della
configurazione tradizionale di religione monoteistica. Qui e ora, si
contempla «la vita in tutte le sue forme» (p. 64). Si afferma la
pluralità delle culture, ognuna con una sua specificità (sia pure
mutevole); citando Panikkar: «Idee e stili di vita sono tipici di un
luogo e difficilmente trasferibili altrove» (p. 66). Se non lo si
riconosce, questo dato costitutivo della realtà socio-culturale – che
alcune discipline “umanistiche”, come l’antropologia etnografica o come
l’ermeneutica d’ispirazione heideggeriana-gadameriana, avevano
sapientemente posto all’attenzione sin dagli inizi del Novecento – si
rischia di cogliere la rete indissolubile dei rapporti interpersonali e
sociali in termini monistici, limitando l’analisi alla ricerca di
“tratti comuni”, come se fosse possibile (e addirittura auspicabile)
pensare le “parti” come tasselli di un tutt’Uno, unico e compatto.
L’altro è una copia di me stesso… privo di ogni alterità, di ogni
differenza, persino “topologica”; l’altro è già qui, nella mia mente;
non c’è desiderio di conoscere l’altro. Non c’è amore.
Tutto va
fatto con amore. Anche una caprese. Se non si prestasse una cura
meticolosa nella preparazione e si componesse un piatto “piatto”, senza
passione, senza il rispetto per «ogni elemento» (p. 69), non si
gusterebbe mai il sapore dell’universo intero, quel pluriverso che si
cela oltre (e persino dentro) la caprese stessa. L’amore dunque è la
fonte vitale che ispira il cammino di un cercatore dello Spirito.
I fiori selvatici insegnano che la bellezza la si può trovare in ogni luogo…
Allora, non dimenticare mai, mio umile e silenzioso pluraco, che non c’è una sola fonte della bellezza e dell’amore.